Gian Luca Marozza

17 giugno 2008

Bali e il post-Kyoto


''Siamo di fronte a un'emergenza planetaria, un'emergenza che minaccia il futuro della civilizzazione e il futuro dell'umanità''. Lo grida Al Gore, il Nobel per la Pace 2007, attraverso un messaggio video fatto arrivare anche in Italia, a Milano. ''I membri della comunità imprenditoriale globale, i governi e la società civile - ha detto Gore - hanno tutti una responsabilità per quello che concerne la crisi del clima''.
A Bali dal 3 al 14 dicembre scorso si è tenuta la XIII Conferenza delle Parti della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici; si sono riuniti governi, esperti, scienziati, organizzazioni umanitarie e uomini d’affari di 190 nazioni, cui spetterà il compito di tracciare una Road Map, ovvero una tabella di marcia, nell'adottare soluzioni più efficaci per combattere il surriscaldamento del pianeta, i cui effetti procurano ogni anno tragedie e disastri specialmente nel Sudest asiatico. Preso atto del fallimento del Protocollo di Kyoto, se anche questa nuova opportunità fosse vanificata, sarebbero compromesse le residue possibilità di governare le conseguenze del riscaldamento globale e dell'aumento dei gas climalteranti (responsabilità occidentale, anche se la Cina purtroppo sta facendo passi da gigante in questa poco edificante classifica).
A Bali, dunque, il mondo moderno ha avuto l'ultima grande opportunità per la sua sopravvivenza ed il summit ha segnato l'inizio dell'era post-Kyoto; in Indonesia, in un lussuoso resort sul mare, 10 mila delegati hanno messo a punto le nuove strategie mondiali. Stati Uniti, Cina e India, le grandi potenze che hanno rigettato il protocollo di Kyoto, sono stati della partita e questa è stata forse la novità più positiva. Questo disatteso protocollo firmato in Giappone aveva avuto l’adesione di solo 36 fra le nazioni industrializzate, che si erano impegnate a rispettarne gli obiettivi entro il 2012 e quindi si è arrivati a Bali con la consapevolezza della difficoltà di giungere ad un nuovo accordo ufficiale, universalmente condiviso.
La sensazione è che il tempo passi, con posizioni confuse e contrastanti: chi vorrebbe tagli più consistenti alle emissioni, chi reclama il mantenimento delle vecchie promesse, chi si limita a mettere in guardia i paesi dalla velocità con cui ci avviciniamo ad una soglia di non ritorno. Gli stili di vita consolidati dei Paesi più sviluppati, come gli Stati Uniti, al primo posto per emissioni di CO2 nell'atmosfera, si contrappongono alla fame di crescita dei Paesi emergenti, come Cina e India, che rivendicano il loro diritto a raggiungere un adeguato livello di benessere economico. E questi desideri, insieme, portano la Terra verso la catastrofe…
Qualcuno afferma che la soluzione ci sarebbe: il modello elaborato da Aubrey Meyer nel 2000, denominato "contrazione e convergenza" che parte dal presupposto che nessuno ha il diritto di sfruttare in maniera sproporzionata le risorse naturali; le nazioni dovrebbero quindi muoversi tutte verso lo stesso traguardo, compatibile con gli interessi degli altri Paesi e le capacità di tenuta del pianeta. I Paesi industrializzati dovrebbero ridurre (contrazione) il loro consumo di risorse più di quanto i Paesi in via di sviluppo lo aumentino (per raggiungere una convergenza). L'abbassamento del livello di emissioni dovrebbe dunque tener conto che i Paesi poveri hanno diritto ad una crescita nei consumi, perché per avere un minimo di benessere (dignity line) ci vuole un minimo di energia.
Per questo da tanti settori della scienza e della società si levano richiami all’attenzione verso le generazioni future: il fenomeno Cina, col suo sviluppo straordinario e impressionante, fa riflettere, poiché le emissioni dell'industria cinese sono determinate da produzioni per beni di consumo destinati all'Occidente; come afferma il ricercatore norvegese Glen Peters: "Noi importiamo i prodotti finiti e lasciamo l'inquinamento in Cina". L’equilibrio da conquistare il prima possibile è quello tra i vantaggi (profitto e potere) e svantaggi (inquinamento, devastazioni, insicurezza alimentare).
Se il cambiamento climatico continuerà con questo passo, è possibile che nel 2050 le coltivazioni come grano e altri cereali si sposteranno sempre più verso Nord, in Canada, Russia, Mongolia, trasformandoli nei più grandi produttori mondiali e lasciando in situazioni ancor più gravose i Paesi del versante meridionale: al di là delle catastrofi naturali, la situazione potrebbe degenerare anche a livello di conflitti sociali.
Il summit di Bali rappresenta quindi un incontro di civiltà, un impegno delle Nazioni a trovare una via alla giustizia e alla pace per il futuro, la ricerca di una idea di etica condivisa, di presa di coscienza della gravità della situazione.
Ma Bali doveva anche trovare la soluzione a problemi “tecnici” specifici: il controllo dei gas serra, basato sullo sviluppo di nuove fonti di energia, trasferibili anche in quei paesi dove il boom industriale è appena partito e gli impegni da assumere nel post-2012, ovvero dopo la fine della validità degli obiettivi del Protocollo di Kyoto. Il tanto controverso accordo giapponese prevedeva la riduzione del 5,2% delle emissioni di CO2 dei Paesi industrializzati (Cina e India escluse, con la mancata adesione anche degli Stati Uniti).
Qualche numero: l'Unione Europea ha chiesto di stabilizzare a 500 parti per milione (ppm) la concentrazione di Co2 per fermare a 2 gradi l'aumento della temperatura, un livello, dicono gli esperti, in cui i danni si verificherebbero ugualmente ma in maniera limitata e sostenibile. Per questo però sarebbe necessario un taglio del 30% entro il 2020 e del 60-80% al 2050. Da considerare il non meno impegnativo capitolo economico: per la Ue gli sforzi sono calcolabili in 200 miliardi di dollari all'anno per 20 anni in tutto il mondo, lo 0,12% del Pil mondiale.
Il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, in un editoriale sul Washington Post pubblicato in occasione dell'apertura dei lavori di Bali, ha scritto: "I governi di tutto il mondo devono sposare un'economia verde, non solo per difendere il pianeta dal riscaldamento globale, ma anche per creare nuovi posti di lavoro. Se il 20% dell'energia usata dagli Stati Uniti fosse rinnovabile, ci sarebbero 300 mila nuovi posti di lavoro".
In prima linea su questi fronti anche l'Italia, il cui ministro dell'Ambiente ha detto che il negoziato di Bali deve prevedere ''interventi obbligatori per tutti i Paesi del mondo nei grandi settori di riduzione della Co2: energia, trasporti e abitazioni''. Ma la figura del nostro paese è stata pessima: un rapporto diffuso dall’Ong tedesca Germanwatch e dalla rete europea Can, posiziona l’Italia in fondo alla classifica dell’indice del cambiamento climatico. La classifica ordina i 56 paesi che più «pesano» per le emissioni responsabili del riscaldamento globale secondo un numero indice che esprime il livello di emissioni e il trend generale delle politiche ecocompatibili. L’Italia è al 41° posto. Le ultime quattro posizioni sono tenute da Canada, Australia, Stati uniti e Arabia Saudita. Quasi tutta l’Unione europea fa meglio dell’Italia, tranne Grecia, Cipro, Irlanda e Lussemburgo. In testa ci sono Svezia, Islanda e Germania. Le sorprese, però, riguardano i paesi del sud del mondo: Messico, India e Brasile che hanno avviato politiche per tenere a bada le emissioni.
E dire che proprio l’Italia potrebbe pagare il conto più salato, in quanto nel Mediterraneo la temperatura è cresciuta quattro volte di più che nel resto del mondo e negli ultimi cinquanta anni il termometro si è alzato di 1,4 gradi. Le città soffocano, il livello del mare è in costante aumento, il 40% delle coste è soggetto ad erosione, alluvione e frane. Il riscaldamento del pianeta, dovuto soprattutto all’immissione nell’atmosfera dei cosiddetti gas serra, rischia di trasformare il 50% del nostro territorio in un deserto (di fatto il fenomeno già colpisce il 10%).
Gli scienziati che si erano riuniti a Roma nel settembre scorso per partecipare alla conferenza sui cambiamenti climatici, già avevano disegnato uno scenario più che preoccupante ed i politici avevano auspicato che l’Europa studiasse una strategia comune per curare lo stato di salute dell’ambiente italiano, che vede la perdita del 20% della superficie dei ghiacciai, l’aumento delle ondate di calore, la diminuzione delle precipitazioni, l’aumento dei linfomi causati dall’inquinamento. L’unico dato appena confortante è che l’emissione dei gas serra, per l’impegno personale nella conferenza di Kyoto, scenderà del 6,5% entro il 2012.
Non solo l’Italia, comunque, ma tutta la regione mediterranea è a rischio e la sostituzione delle piogge primaverili con fenomeni alluvionali disastrosi, cui seguiranno periodi di siccità è la prima vistosa conseguenza. Il Mediterraneo è colonizzato da specie aliene e tra meno di un secolo forse dovremo dare l’addio ai ghiacciai alpini.
Tutto ciò avrà ripercussioni anche sul territorio per l’erosione delle coste e la scomparsa delle nevi e sull’alimentazione per la scarsità di acqua e la diminuzione dei terreni coltivabili e irrigabili.
Gli scienziati portano alla luce altri preoccupanti segnali dei disastri che il clima impazzito determinerà: nell’agosto del 2005, a 800 km dal Polo Nord si è staccata dalla distesa di ghiaccio nota come Ayles Ice Shelf che fronteggia l’isola canadese Ellesmere, una massa di ghiaccio grande 65 kmq, (quanto metà della città di Torino o un quarto dell’isola d’Elba). E’ un iceberg più grande di Manhattan che va alla deriva nel mare di Beaufort, dove preoccupa la presenza di pozzi di gas e greggio e la navigazione di molte petroliere.

Alla fine la Conferenza di Bali ha approvato il documento che serve per avviare due anni di negoziati mondiali ed arrivare al summit sul clima del 2009 fissato a Copenaghen, per varare un nuovo accordo di riduzione dei gas serra per il dopo 2012, a partire cioè dalla scadenza del Protocollo di Kyoto. Il finale dell'approvazione della road-map è stato al cardiopalma: fino all'ultimo l'esito è rimasto incerto e la dichiarazione dell'opposizione degli Stati Uniti all'accordo di compromesso proposto dai Paesi in via di sviluppo ha dapprima gettato il gelo sulla platea di ministri e delegati riuniti in seduta plenaria, poi ha scatenato una serie di interventi tutti a favore del compromesso.
Gli Stati Uniti hanno dovuto cedere alle pressioni e, con il capo delegazione Paula Dobriansky, si sono dichiarati a favore del consenso: tre colpi di martelletto da parte del ministro dell'ambiente indonesiano Rachmat Witoelar, presidente della Conferenza e il documento è stato approvato, salutato da uno scrosciante applauso liberatorio.
Il documento finale preparato a Bali, poco più di tre fogli, non fa alcuna menzione a limiti obbligatori sulle emissioni di gas serra, ma contiene l'agenda e i principi che devono tracciare il cammino da qui al 2009, quando sarà firmato un nuovo protocollo in sostituzione di quello di Kyoto, più ambizioso. Del resto la Conferenza sponsorizzata dall'Onu non aveva l'obiettivo di fissare misure stringenti, ma doveva definire obiettivi e tappe per i prossimi negoziati. Il «Kyoto 2», che sarà negoziato nei prossimi due anni, sarà firmato come detto a Copenaghen nel 2009 e avrà effetto a partire dalla fine del 2012. I tre blocchi opposti - Usa, Ue e le nazioni in via di sviluppo guidate da Cina e India - hanno alla fine attenuato le differenze per concentrarsi su alcune questioni chiave. Si sono accordati per attivare un «fondo di adattamento» per aiutare i Paesi più poveri, come le isole del Pacifico, che stanno già patendo gli effetti del surriscaldamento; hanno deciso di dare appoggio tecnologico e finanziario ai Paesi in via di sviluppo, in modo da aiutarli a ridurre le emissioni di gas responsabili dall'effetto serra; hanno riconosciuto indennizzi ai Paesi poveri perché tutelino il proprio patrimonio boschivo.