Gian Luca Marozza

29 aprile 2008

Un altro pezzo si stacca dalla vecchia Jugoslavia








La Jugoslavia può essere considerata uno stato “artificiale”, costruito in base all’ideologia comunista e per questo motivo frantumatosi dopo la morte di Tito, malgrado i tentativi di Milosevic di ricostruirlo sulla base del suo potere personale, con la repressione, la violenza e la pulizia etnica, soprattutto contro la popolazione albanese del Kosovo. Solo un potere forte come quello del maresciallo Tito era riuscito a tenere unite popolazioni con così accentuate diversità etniche, religiose, politiche e culturali, ma già la separazione dei primi stati, Croazia e Slovenia, aveva determinato lo scatenarsi di scontri armati e di una vera e propria guerra civile, che la diplomazia europea non è riuscita ad evitare.
La Jugoslavia non fu mai, forse, una vera nazione e per molti anni ha rappresentato solo un fragile compromesso tenuto in piedi dal comunismo di Tito, sconfessato dallo stesso Stalin, ma comunque comodo cuscinetto tra gli stati del patto di Varsavia ed il mondo occidentale. Al tempo della guerra fredda e del muro di Berlino, al problema politico si aggiunse quello economico, perché le prime due repubbliche separatiste del nord rappresentavano l’80% della produzione industriale; del resto, la stessa delicata “questione Balcani” si era già presentata nell’ottocento, quando alla vigilia e dopo la prima guerra mondiale si era più volte manifestata in tutta la sua drammaticità.
L’indipendenza del Kosovo arriva dunque quasi nove anni dopo le bombe della NATO su Belgrado, ultima cruenta carta che la comunità internazionale si giocò per mettere fine al progetto di pulizia etnica del regime serbo di Slobodan Milosevic. Ma ripercorrendo la storia, molte sono le incertezze e gli errori politici commessi nel tentativo di difendere l’etnia albanese dalla minaccia di repressione, in un percorso tortuoso che ora vede gli stessi organi internazionali pronti ad intervenire a tutela della minoranza serba contro gli albanesi.
Per comprendere a fondo i processi che hanno portato alla proclamazione dell’indipendenza del Kosovo, è opportuno andare a ritroso nella storia degli ultimi decenni: questo lembo di terra dei Balcani – durante il secondo conflitto mondiale - venne occupato dai tedeschi e dagli italiani e in particolare la provincia di Pristina finì sotto il controllo delle nostre truppe.
La regione, dopo il conflitto mondiale, era abitata in gran parte da cittadini di origine albanese, molti dei quali già espulsi dal Kosovo nel periodo tra le due guerre; Tito non concesse mai status particolari a questo territorio, che venne sempre considerato una semplice provincia della Serbia, seppur con una connotazione di autonomia, ma senza il diritto costituzionale di secessione, del quale godevano gli altri sei stati.
Nel 1987 proprio Slobodan Milosevic venne inviato in Kosovo per cercare di mediare fra le due etnie: ben diverso fu il risultato della sua missione, in quanto dalla sua parte si schierarono i nazionalisti serbi che volevano “riconquistare” il paese e nel 1989 lo stesso Milosevic ritirò gran parte dell’autonomia costituzionale che il Kosovo aveva faticosamente guadagnato nel corso del tempo. Con l’elezione di Milosevic a Presidente della Repubblica Serba la situazione era destinata a precipitare: vennero chiuse le scuole albanesi, licenziati docenti e amministratori di origine albanese ed il 2 luglio del 1990 i ribelli reagirono dichiarando l’indipendenza della Repubblica del Kosovo, riconosciuta solamente dall’Albania. Due anni dopo si svolse un referendum sull’indipendenza: il 98 per cento dei votanti mise una croce sul sì. Al termine della guerra in Bosnia-Erzegovina, nel 1995, il Kosovo scelse la strada della resistenza armata, guidata dall’UCK, e quattro anni dopo le forze internazionali intervennero a favore del Kosovo, attaccato dal governo di Belgrado.
In base alle Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite numero 1244 del 1999, il Kosovo fu provvisto di un governo e di un parlamento provvisori e posto sotto il protettorato internazionale UNMIK e NATO.
Negli anni successivi la situazione è andata lentamente normalizzandosi, anche se non sono mancati episodi di violenza, come nel marzo 2004, quando gruppi composti principalmente da kosovari di etnia albanese attaccarono oltre trenta chiese e monasteri cristiani in Kosovo, uccidendo almeno venti persone e incendiando decine di abitazioni di serbi.
Dopo la morte del presidente Ibrahim Rugova, avvenuta nel gennaio 2006, furono avviati i negoziati tra delegazione kosovara serba e quella kosovara albanese sotto la guida del mediatore ONU Ahtisaari, per la definizione dello status futuro della provincia serba. Nonostante numerosissimi incontri tra le diverse parti, il piano per lo status finale del Kosovo non fu mai condiviso né dai serbi, che non volevano perdere la sovranità sulla regione, né dai kosovari, che ambivano alla piena indipendenza.
Il 17 novembre 2007 si sono svolte le elezioni per rinnovare sia l'assemblea parlamentare del Kosovo che le rappresentanze dei comuni. Le elezioni sarebbero dovute avvenire già nel 2006, ma sono state rinviate nella speranza di risolvere in breve tempo la questione dello status. Così non è stato, e le profonde divisioni con la Serbia hanno portato al boicottaggio elettorale degli stessi serbi del Kosovo e ad una bassa affluenza alle urne da parte dei kosovari albanesi. Ha prevalso il Partito democratico (Pdk) dell’ex capo guerrigliero dell’Uck, Hashim Thaci che ha superato per la prima volta la Lega democratica (Ldk) del defunto presidente Rugova.
Le autorità kosovare hanno proclamato l'indipendenza in modo unilaterale; il 16 febbraio 2008 l'Unione Europea, in vista dell'annunciata proclamazione d'indipendenza, ha approvato l'invio di una missione civile internazionale in Kosovo (chiamata Eulex), in sostituzione della missione NATO, per accompagnare il Paese in questo periodo di transizione. La missione comprenderà 2.000 uomini (fra i quali 200 italiani), e avrà l'obiettivo di sostenere le autorità kosovare nel mantenimento della sicurezza e dell'ordine pubblico.
Dunque, i Balcani, questo insieme di “staterelli abortiti”, sempre con le armi in pugno in una sorta di nevrosi geopolitica, sono teatro di un nuovo scontro diplomatico: Pristina forse non è l’ultima stazione della via crucis iniziata nel 1991 per la post-jugoslavia, allora composta da 7 atomi, Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Serbia, Macedonia e Kosovo, quest’ultimo grande come l’Abruzzo, dove il 92% della popolazione è di etnia albanese e solo il 4% kosovara, con altre piccole minoranze di bosniaci, turchi, croati e rom. Il nuovo stato non ha esercito, non ha un ministero degli esteri, la sua economia non può prescindere dagli aiuti internazionali e di fatto lo stato è un protettorato vigilato da circa 16.000 militari, di cui 2.5000 italiani guidati dalla NATO.
Il pericolo è che le mafie delle varie etnie, collegate nel loro disegno criminale, ambiscano al potere per guadagnarsi una sorta di “immunità parlamentare”, mente gli altri paesi hanno forse il malcelato interesse di “disfarsi” di questo tipo di criminalità, attiva soprattutto nel traffico di droga, che potrebbe rientrare stabilmente nel nuovo paese.
La dichiarazione unilaterale di indipendenza rischia quindi di travestire le mafie da istituzioni democratiche e può servire per una pericolosa emulazione su scala mondiale, dai baschi ai turco-ciprioti, dai palestinesi ai magiari di Transilvania, ai taiwanesi, ai tibetani, ai ceceni. L’indipendenza del nuovo stato rischia soprattutto di destabilizzare la situazione in Macedonia (impegnata con la Grecia in una difficile trattativa sulla questione del nome), in Montenegro e Bosnia-Erzegovina (paesi accomunati dal fatto di ospitare minoranze serbe numericamente molto forti che minacciano un referendum per la secessione).
Attualmente il progetto di una grande Albania non è tra le priorità di Pristina, che prima deve costruire fondamenta costituzionali solide, concludendo il processo di legittimazione internazionale e prevenire ogni contrasto con i serbi. Gli stessi italiani durante l’occupazione militare dell’Albania negli anni ’40 avevano già allora incoraggiato l’irredentismo albanese nei confronti della Jugoslavia e di alcuni territori della Macedonia e del Montenegro.
In prospettiva il progetto di Panalbania potrebbe essere ripreso oggi e la valle di Presevo, che è un piccolo territorio serbo adiacente al nuovo stato, abitato in maggioranza da albanesi (molti dei quali vorrebbero staccarsi da Belgrado), potrebbe divenire per il suo valore geostrategico territorio di scambio con il nord Kosovo a prevalenza serba, zona che è una delle tessere del mosaico dei Balcani a rischio di una nuova crisi.
Il 17 febbraio 2008 il Parlamento di Pristina, riunito in seduta straordinaria, ha approvato la dichiarazione d'indipendenza del Kosovo adottando i suoi simboli nazionali che sono la bandiera con 6 stelle bianche, con il profilo della regione in giallo, il tutto su sfondo blu e lo stemma con gli stessi simboli. Le sei stelle che spiccano sul nuovo stemma del Kosovo indicano le nazionalità che abitano il paese: albanesi, serbi, bosniaci, turchi, rom ed egiziani di etnia zingara. Ma gli albanesi, che sono come detto in maggioranza, avrebbero voluto sullo stemma il loro emblema e l’aquila bicipite al posto del disegno con i confini del territorio.
La nazione si è arrogata il diritto di reclamare l’indipendenza a separarsi, violando le norme internazionali ma continuando a pretendere soldi, impunità e protezione dalla comunità internazionale, e il fatto strano è che l’assemblea provvisoria di Pristina ha solennemente dichiarato che altri paesi non debbono comportarsi alla stesa maniera: 23 in Africa, 21 in Asia, 26 in Europa, 6 in Medio Oriente, 21 in America e 12 in Oceania, che come il Kosovo anelano alla propria indipendenza.
Il Kosovo ha accettato le fondamentali limitazioni alla sua sovranità contenute nel piano di mediazione ONU, ma ciò implica importanti responsabilità europee nei confronti delle quali l’UE è impreparata e divisa e la situazione è aggravata dalla scarsa funzionalità delle istituzioni locali e dalle connessioni tra leadership politica e traffici illeciti. In realtà in Kosovo non si volta mai pagina: logiche e personaggi sono sempre gli stessi, e rimangono quelli che hanno segnato le vicende jugoslave, a dimostrazione del fallimento targato ONU e UE.
Malgrado dieci minuti dopo la proclamazione dell’indipendenza il governo serbo si sia affrettato a dichiarare illegittima ed illegale tale iniziativa, Belgrado non può né vuole rioccupare la provincia secessionista, ma potrebbe minarne la stabilità con provocazioni, attentati ed infiltrazioni di truppe speciali, proclamando una mobilitazione generale per la difesa delle minoranze serbe nel Kosovo del nord. Di fatto, sul fronte Kosovo albanese e su quello serbo, più gruppi armati si preparano allo scontro: gli uomini neri dell’AKsh (armata albanese), le infiltrazioni wahabite, i paramilitari serbi.
Lo schieramento dell’USA a favore dell’’indipendenza e di Mosca in senso avverso, sta a significare che in Europa nessuna decisione può essere presa senza l’intervento delle due grandi potenze, tese l’una ad auspicare l’espansione della NATO ad est e l’altra a reprimere qualsiasi movimento separatista. L’appoggio degli USA e la fragilità europea hanno dunque favorito la nascita di uno stato che qualcuno ha definito l’epicentro del traffico di droga dall’Oriente all’Occidente.
Da un ruolo che poteva essere di giudici, ci siamo trasformati in spettatori paganti, destinati a soffrire a lungo le conseguenze di una prevedibile instabilità, con la prospettiva probabile di dover finanziare altre missioni e di dover comunque assistere economicamente il nuovo paese. Il riconoscimento immediato da parte degli USA e di molti stati della comunità europea ha suscitato la reazione russa e di Belgrado, che potrebbe staccarsi dall’idea europea per riavvicinarsi al Cremlino. Quello che preoccupa di più nel nuovo paese è comunque il pericoloso connubio tra criminalità e potere, con la probabile istituzionalizzazione del potere mafioso e la saldatura di alleanze criminali già sviluppate.
Nella partita ancora aperta del Kosovo, la Russia ottiene per ora una forte influenza sulla Serbia e in un certo senso è arrivata alle porte dell’Europa con i terminali dei suoi sistemi energetici, ipotizzando di tagliare fuori l’Ucraina ed escludendo per ora l’integrazione della Georgia nella NATO. Finora l’ONU non si è pronunciata sull’indipendenza: dei membri del Consiglio di sicurezza con diritto di veto la Russia e la Cina sono contrari, mentre sono favorevoli Usa, Francia e Gran Bretagna. Il rischio è di vedere il Kosovo veleggiare nel limbo infinito dell’incertezza, mentre l’Unione Europea, riunita in assemblea a Strasburgo, non riesce a disegnare una linea guida unitaria, lasciando ai singoli paesi la facoltà di decidere e di fatto Italia e Germania hanno seguito l’indirizzo di francesi ed inglesi, mentre Grecia, Cipro e Romania si sono dichiarati contrari, paventando il rischio di instabilità interne per le autonomie che da tempo richiedono spazi e indipendenza.

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